domenica 3 febbraio 2013

Andrej Rublev - Andrei Tarkovsky (1966)

(Andrey Rublyov)

Visto in DVD.

Film biblico per molti versi, per il soggetto, la trama, il respiro, ma soprattutto per il ritmo. ci si consideri avvertiti.
La storia divisa in otto episodi è presto detta.
La presentazione di una figura cristologica nella Russia medievale è solo la superficie del film; il succo di tutto è, forse, un ampio ragionamento sul bene e sul male (hai detto niente). Di fatto le tesi messe in campo sono molte, ma non mutualmente esclusive. Vi è l’ovvia questione sul ciò che è bene e ciò che è male, sull'accettazione di entrambi come inevitabili figli della natura umana e la questione del perdono e dell’espiazione o dell’ipocrisia e dell’invidia. Vi è il male utilizzato per fare il bene (i terribili dipinti del giudizio universale utili per istruire il popolo sulla fede) e vi è il bene utilizzato per fare il male (la carne data ai cani dai Tartari).  Vi è poi il modo per tendere al bene, l’arte, l’arte come mezzo per creare bellezza e come già disse Dostoevskij, la bellezza salverà il mondo.

Se la trama già appare discretamente complessa, beh questo è niente. La grandezza di questo film (come spesso in Tarkovsky) è che il contenitore prende la forma del contenuto per sottolinearlo. Se per il protagonista il modo per giungere al bene era creare la bellezza tramite le icone; Tarkovsky sembra decidere di creare la bellezza tramite un film su un costruttore di icone. Molte le scelte estetizzanti che creano un susseguirsi di immagini realmente belle; il film è per lo più girato in un bianco e nero utile a sottolineare il candore del protagonista, il bianco è pervasivo per molte delle scene in cui è previsto Andrej Rublev. Ma ciò che più sembra avere un peso è il movimento. Se le icone sono rappresentazioni statiche, Tarkovsky sembra prodigarsi a creare una sorta di corrispettivo cinematografico delle icone (non a caso tutto il film è un lungo preambolo per le immagini finali); e cosa c’è di più cinematografico del movimento? È tutto un continuo movimento di macchina dal caos della scena iniziale (splendida! Dove la macchina da presa sembra legata ad una mongolfiera che si alza sulla folla) ad un continuo fluire di carrelli, panoramiche e movimenti secchi, talvolta utilizzati a scopo descrittivo di una scena o un’azione, talvolta utili solo a sottolineare solo il correre di un cavallo; tutto è un inno al movimento.

E in tutto questo Tarkovsky riesce anche ad aggiungere alcuni tocchi di indubbia poesia (come al nevicata dentro la chiesa) anche se non sono in diretta relazione con il film stesso. Anzi l’intero episodio finale del fonditore di campane è un film nel film, un’enorme parabola poetica (con alcuni dei movimenti di macchina più complessi) completamente disgiunta dal resto dell’opera; tuttavia è proprio durante queste lunghe sequenze che vengono tirate le somme di tutti gli episodi precedenti e questo stesso spezzone di film riesce ad acquisire un senso proprio (e decisamente maggiore) proprio perché posto in chiusura delle due ore precedenti.
Chapeau.

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