venerdì 22 luglio 2016

Due occhi diabolici - Dario Argento, George Romero (1990)

(Two evil eyes)

Visto in Dvx.

Due storie ispirate ai racconti di Poe, la prima (girata da Romero) è un adattamento in chiave moderna del caso aldermar. La seconda (di Argento) è un mix di citazioni inserite in una storia basata su "Il gatto nero".

Di per sé l'operazione è molto affascinante; due maestri del cinema di nicchia, rielaborano secondo il loro mood dei racconti del maestro dell'inquietudine.
Purtroppo quello che ne viene fuori è, nell'insieme un burtto film.

Ad abbassare l'umore generale è l'episodio di Romero. Il racconto di Poe è preso e inserito in una storia di amanti ed eredità (il signor Valdemar viene mesmerizzato per tenerlo in vita in maniera tale da fargli "firmare" documenti nonostante il grave handicap della morte...), poi Romero, che ha un riflesso condizionato, improvvisamente trasforma tutto in un film di zombie. Efficace il dialogo dall'aldilà, ma tutto il resto non funziona. Ritmo assente, struttura narrativa noiosa (il racconto originale di Poe è affascinante, ma già di per sé è uno dei meno avvincenti) gestione della regia con il pilota automatico, fotografia imbarazzante. Giuro questo segmento è la morte dell'interesse.

L'episodio di Argento è un film con gli usuali problemi di sceneggiatura quando i regista (anche writer ovviamente) non si pone dei limiti. L'episodio è una versione de "Il gatto nero" con un gatto particolarmente satanico, ossessivo, profetico e con un'incredibile capacità di non morire e di entrare nei sogni; il tutto condito con continui riferimenti ad altri racconti dello scrittore (meraviglioso, a dirla tutta, l'incipit con la scena del crimine de "Il pozzo e il pendolo").
Nonostante l'eccessiva voglia dis trafare il segmento argentiano regge benissimo, perché si avvale di un ottimo Keitel che porta avanti con incredibile coerenza la trama raffazzonata e perché dietro la machcina da presa c'è un Argento nella sua seconda fase positiva. Si muove come faceva negli anni '70, crea sequenze efficaci (il rapido finale) e costruisce scene d'impatto (l'incipit, il ritrovamento del gatto nel muro), ma soprattutto gestisce la macchina da presa con la grazia dei decenni passati, danza con le immagini e ti fa ricordare perché una volta era considerato il più grande.

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