mercoledì 30 maggio 2018

Lei mi odia - Spike Lee (2004)

(She hates me)

Visto in Dvx.

Un impiegato di un'industria farmaceutica viene licenziato per uno scandalo; per sopravvivere si vedrà costretto a vendere il proprio seme... facendo sesso con donne lesbiche con intenti materni... tutto questo è un progetto della sua ex quasi moglie che l'ha lasciato dopo aver scoperto la propria omosessualità. Naturalmente troverà anche il tempo per portare in tribunale la sua ex ditta perché tutti sapevano che erano cattivi, ma nessuno li ha fermati.

Terribile film di Spike Lee (ma dopo i primi anni '90 ne ha imbroccati davvero pochi) che, come spesso, latita completamente nella sceneggiatura non sapendo che cosa vuol essere.
Potrebbe essere una commedia romantica, ma non ne ha il tono complessivo, è troppo ingarbugliata, e la parte più onestamente da commedia si perde nel sociale; potrebbe essere un drammetto sulla crisi, ma non ne ha il piglio troppo sopra le righe e i continui cambi di tono; potrebbe essere un film di denuncia (sic), ma relega questa parte a un finalino striminzito attaccato al resto del film con la colla.
Sembra che Lee avesse in mente una commedia, ma che dovesse a tutti i costi metterci un contesto sociale altrimenti non avrebbe tollerato di riderne e che all'ultimo abbia pensato di essere come Oliver Stone e doverci mettere un poco di Watergate. Il risultato finale è imbarazzante.

Su tutto questo non intendo commentare il punto più alto (la regia e la fotografia sempre ottime con picchi davvero eccellenti) o quello più basso (il siparietto indecente di una delle Bellucci peggiori che riesce a trascinare nel ridicolo anche Turturro) perché l'esito del film si gioca su tutto il resto.

PS: e neanche sono stato lì a parlare dell'uso imbarazzante dell'imbarazzante CGI.

lunedì 28 maggio 2018

Whore (puttana) - Ken Russell (1991)

(Whore)

Visto in Dvx.

Una prostituta racconta la sua vita quotidiana, il suo recente passato, il rapporto con clienti e protettore.
Noioso film a tema di un Ken Russell invecchiato che tenta di ribattere al successo di "Pretty woman" che riteneva falso sulla luce positiva data al mondo della prostituzione.
Quello che ne viene fuori è una serie di inquadrature, per lo più fisse, dove Theresa Russell declama direttamente alla macchina da presa blaterando sulla realtà di una prostituta condendola con iperboli di squallore inarrivabili e idiote (il martio alcolista che le vomita sull'insalata... WTF?) tutte mirate a sostenere un assunto iniziale che nessuno avrebbe messo in dubbio. Il blando tentativo finale di mettere un poco di trama su questa struttura riesce solo a rendere il tutto più imbarazzante (per evidenti problemi di scrittura).
Inaccettabile anche il cast, la nostra Russell è eccessiva, ma sembra rispondere a una richiesta precisa, i pochi altri personaggi principali, sono invece inadatta e basta.
Tutto sommato però quello che indispettisce di più è che il Russell dietro la macchina da presa (per l'ultima volta per un lungometraggio per il cinema), pur con un certo impegno nella fotografia, non ha più guizzi, non ha più il suo tocco surreale, la sua cura nell'immagine a effetto e inaspettata. Quello che rimane è un brutto film inutile.

venerdì 25 maggio 2018

Spring breakers. Una vacanza da sballo - Harmony Korine (2012)

(Spring breakers)

Visto in Dvx.

Quattro ragazze decidono di andare allo spring break in Florida nonostante la mancanza di soldi; a seguito di una rapina potranno partire, ma anche in Florida avranno problemi con la giustizia e si infileranno in un mondo di gang e violenza.

Questo è un film dalla trama estremamente esile che gioca tutto sulle immagini. Immagini iperpatinate, ridondanti, kitsch, rallentate e giocano sui contrasti. Le immagini danno forma a quel poco di trama e a tutto il senso del film be oltre le parole che sono usate, come la musica, solo come sfondo, come stampella delle immagini, non per spiegarle, ma per sostenerle.
Korine fa un lavoro ragguardevole prendendo l'immaginario moderno di divertimento, gonfiandolo, rallentandolo e facendolo durare troppo (questo è l'incipit), rendendolo fin da subito qualcosa di inquietante; da li parte un film che, programmaticamente, cerca di mostrare la violenza, la brutalità, l'orrore che si trova al di sotto dell'idea di felicità televisiva (il tutto usando il paradosso e l'eccesso).
Non c'è l'istinto del predicatore in tutto questo, ma solo un accorto uso degli stilemi classici usati da una qualunque trasmissione di Mtv; Korine non mostra il vuoto che c'è sotto, ma lo riempie di un perturbante talmente esagerato (le ragazzine di Disney Channel che fanno il girotondo con passamontagna rosa e fucili a pompa prima del massacro) da non voler essere critica (anche perché le critiche che potrebbero essere sollevate sarebbero altre), ma allegoria.

Indubbiamente lo sforzo di regia e, soprattutto, di montaggio è enorme e nella seconda parte regala momenti pazzeschi; però, purtroppo, bisogna prima superare una prima metà che sembra voler essere più un esercizio di stile che altro.

mercoledì 23 maggio 2018

Palombella rossa - Nanni Moretti (1989)

(Id.)

Visto in Dvx.

In un momento di crisi personale e sociale (la crisi d'identità del PCI) Michele Apicella (redivivo dopo "La messa è finita") riconsidera la sua vita e quella del partito con la metafora continua a ripetuta della partita di pallanuoto.
Uno dei pochi film di Moretti che non avevo mai visto, ma è immediatamente diventato uno dei miei preferiti.
Una sorta di "8 1/2" (scusate il paragone) meno raffinato e più politicizzato; una vita riassunta con la descrizione di un'ideologia tanto personalmente sostenuta e intessuta con dialoghi fatto su un argomento sportivo, da sempre, di serie B. Il tutto realizzato con il consueto tocco surreale di un Moretti al suo massimo.

Quello che viene messo in scena è un balletto perfettamente organizzato di personaggi buffi, ricordi di gioventù, lente prese di coscienza e continui rimandi a qualcosa che il protagonista non riesce a ricordare. Di fatto la tendenza felliniana di Moretti è sempre esistita, ma mai come in questo film si fa evidente, ma, tolta la grazia del collega, Nanni la rimpiazza di politica (facendo il giro e trasformando il suo eterno personaggio in autore).
Un film metacinematografico, pieno di brio e parossismi che riesce a interessare e stupire nonostante parli di un periodo che non ho vissuto ed estremamente distante da me (per questioni anagrafiche).

lunedì 21 maggio 2018

Il volo della fenice - Robert Aldrich (1965)

(The flight of the Phoenix)

Visto in Dvx.

Un gruppo di uomini stanno sorvolando il deserto libico per tornare a casa, ma l'aereo si impantanerà nelle sabbia in mezzo al nulla. La convivenza, l'attesa, i tentativi di fuga metteranno a dura prova (e faranno fuori) tutti i partecipanti.

Un film muscolare in puro stile Aldrich, ma con una capacità di gestire attori e spazi che supera a destra quasi tutto quanto fatto dal regista fino a quel momento.

In primo luogo una storia con unità di luogo, un manipolo di personaggi che devono solo relazionarsi fra di loro e applicarsi in lunghi tentativi di fuga... beh, è un attimo che ti sfugga di mano e finisca nella noia più oscura. Eppure Aldrich riesce a gestire perfettamente i tempi; riesce a rendere la monotonia di quei giorni alternandola perfettamente agli scontri, alle fughe, ai tentantivi e alle scene ripetitive. Riesce in un gioco di equilibrismo che è solo il primo di questo film.

Aldrich poi compie un piccolo capolavoro nella gestione degli spazi, utilizzando la porzione di deserto attorno al veivolo come uno spazio chiuso, riuscendo a rendere vago senso di claustrofobia in uno spazio aperto e eprmettendosi il lusso di alcun campi lunghi ben fatti solo per poche scene.

Infine il regista si trova a gestire un cast enorme per numero di personaggi e per valore degli interpreti (certo, per lo più caratteristi, ma comunque di livello); nel farlo ottiene il miglior risultato del film e l'equilibrismo più arrischiato (ma meglio riuscito di sempre), tutti i personaggi (salvo i pochi obiettivamente inutili se non per una funzione decorativa come l'italiano Gabriele) hanno il loro spazio, riescono a essere delineati e compatti, permettono all'attore che li interpreta di portare a casa una parte che va dal buono al dignitoso e tutto questo mantenendo comunque su un altro piano i 3-4 coprotagonisti della vicenda.

SPOILER
Devo ammettere che l'unica stortura che ho trovato è stato l'happy ending finale ai limiti del film disneyano. Ma dopo oltre due ore di un'operazione titanica, sporca e sudato, soddisfcente di per sé, una strizzata d'occhio al botteghino la si può concedere.

venerdì 18 maggio 2018

Spiklenci slasti - Jan Švankmajer (1996)

(Id. AKA Conspirators of pleasure)

Visto in Dvx.

Sei persone si applica in attività bissarre con lo scopo di prodursi piacere sessuale... nonostante di sessuale ci sia ben poco.

Al suo terzo lungometraggio in live action, Švankmajer, ha delineato un modus operandi; un ambiente iperrealistico, ma sospeso nel tempo (il mondo dove vivono i suoi personggi potrebbe essere l'Europa orientale degli anni '70 o una versione svilita di quella moderna) con personaggi solitari e silenziosi che si muovono in ambiente in cui il surreale è trattato con la stessa tranquillità e ovvietà di avvenimenti quotidiani.
Come sempre c'è una piccola percentuale di stop motion; qui particolarmente limitata.
Il film è l'incrociarsi di queste vicende balndamente collegate fra loro, tutte incomprensibili all'inizio (e solo in parte comprensibili alla fine) senza spiegazioni. L'effetto è pià straniante del solito e il tema surreale trattato senza trama sarebbe inguardabile se non ci fosse proprio quest'aria da cospiratori, quasi l'effetto del thriller applicato a un film che thriller non è; tuttavia l'attenzione rimane calamitata alle vicende nella voglia di capire dove andranno a parare.
Più che un film un divertissement d'autore o, forse, un manifesto di un certo modo di fare cinema.


mercoledì 16 maggio 2018

Il bandito - Alberto Lattuada (1946)

(Id.)

Visto in Dvx.

Ritornato dalla prigionia in Germania, Amedeo Nazzari, ritrova una casa distrutta dalle bombe, la amdre morta e la sorella cstretta a prostituirsi, poi un nuovo guizzo di sfortuna lo rende completamente solo, dovrà arrangiarsi, ma nella sfortuna si ritroverà a guidare un manipolo di gnagster locali e diventare il bandito per eccellenza della zona; ma il destino saprà di nuovo metterlo alle strette.

Un film che è un noir all'italiana; disillusione, il gioco del fato che decide più dei protagonisti, la facilità con cui si muore e l'impossbilità di amare, una femme fatale che manipola; Lattuada si mette alla regia di quello che, nella parte iniziale, potrebbe essere un film di Fritz Lang e, almeno nella prima parte, riesce a mantenerne il mood senza abdicare al tocco personale.
Si, perché il ritno dal fronte è il classico film italiano di brava gente che cerca di sopravvivere, perché l'arrivo a casa del protagonista è puro neorealismo; ma in ogni momento la fotografia oscura dimostra che l'intento è un altro; dando vita a scene incredibili (la panoramica sulla casa distrutta, fratello e sorella nella scena sulle scale, ma anche la scoperta della sorella stessa) che sono, di gran lunga, la cosa migliore del film.
Nella seconda parte, quella in cui c'è la nascita di un gangster di provincia, pur mantenendo qualità e idee perde in interesse, fino al ritorno di fiamma del finale, eccessivo forse, ma in linea con quanto visto all'inizio (anche se speculare, con l'ambiente innevato che fa da negativo dell'oscurità dell'incipit).
Nazzari ha il portamento giusto per la parte anche se il tono troppo impostato lo sqaulifica spesso; invece la Magnani si mangia ogni scena in cui compare.

In ogni caso uno dei film migliori di Lattuada


lunedì 14 maggio 2018

The place - Paolo Genovese (2017)

(Id.)

Visto in aereo.

Un uomo, seduto in un locale, incontra persone con problemi a cui garantisce una soluzione in cambio di un'ordalia, possono andare dal dover uccidere una bambina, al dover rimanere incinta, dalla costruzione di una bomba a far lasciare una coppia di amici. Anche le richieste possono essere le più variegate, dal ritrovare la fede in Dio, a una notte di sesso con una pin up fino a guarigione di parenti.

Il film è tratto da una serie televisiva americana (che non ho visto) da cui si discosta pochissimo, inventando poco, ma addensando molto. Diverse vicende vengono condensate nel minutaggio di un film e i personaggi vengono costantemente legati gli uni agli altri senza un senso apparente, ma in un carosello costante di rimandi ed effetti domino.
Il film, parte da un plot solido e ben delineato, ridotto magnificamente, ma difficile da gestire. Tutto ambientato in uno stesso edificio, con gli stessi attoria ripetersi e scene sostanzialmente identiche, la stanchezza appare dietro l'angolo.
Paolo Genovese, che conosco pochissimo, ma credo per la prima volta alle prese con un dramma, si muove benissimo. Pur senza inventare nulla porta avanti una regia invisibile, ma costantemente improntata allo scarto di punto di vista rispetto alla sequenza precedente, riuscendo a dribblare la noia in molte occasioni e, nel finale, riuscendo a aumentare l'interesse con il progredire delle storie.
Ancora una volta però bisogna sottolineare il lavoro di scrittura, il vero fattore determinante per la riuscita di questo film. A fronte della ripetitività delle vicende l'idea alla base è quella di attori che raccontano eventi enormi, ma avvenuti fuori campo in uno sforzo di gestione dei monologhi che ha del titanico; a fronte di un cast di nomi famosi (ma non per questo sempre impeccabile...) gli eventi raccontati sono prefetti, si prendono i tempi dovuti per attirare lo spettatore senza indugiare troppo per non scadere nello sbadiglio.
Un film originalissimo nel panorama italiano, non privo di difetti, ma ben gestito e godibile fino in fondo.

venerdì 11 maggio 2018

The disaster artist - James Franco (2017)

(Id.)

Visto in aereo, in lingua originale sottotitolato.

La storia "produttiva" di "The room", imbarazzante opera prima dell'inquietante Tommy Wiseau, un wannabe attore e regista che si è autoprodotto la sua pretenziosa e dozzinale opera prima.

Franco (James) prende il libro dell'amico e collaboratore di Wiseau per tirare fuori i retroscena della vicenda, ne prende gli aspetti grotteschi o involontariamente comici, ne esaspera e tic e tira fuori un film comico perfetto, con un personaggio dettagliato anche se non profondo, una plot interessante e un respiro che va oltre al minutaggio grazie all'aura da cult di serie B guadagnato dal film originale.
L'efficacia del film è fuori discussione e Franco (sempre James) tira fuori un'interpretazione adeguata, dalla pronuncia perfetta e dalle movenze caricaturali come lo richiede il tono del film.

Quello che non è chiaro è lo scopo finale. Se è evidente la funzione alimentare di sfruttare il mito di qualcun altro per il proprio film è la chiusura che lascia interdetti. Franco (James) lascia intendere che il film sia incredibilmente divertente, quando invece è una lenta cavalcata nella noia con momenti di estremo imbarazzo; sembra volerci far affezionare a Wiseau, ma lo tratta alla stregua di un ritardato la cui fortuna è quel di aver avuto culo.
Più che un qualunque motivo edificante l'impressione è che il film sia stato fatto per esaltare sé stesso (le scene dei titoli di coda rifatte quasi identiche e affiancate a quelle originali sembrano voler mostrare i muscoli) e dare lavoro al frat pack (ma soprattutto dare la parte del co-protagonista al fratello), magari al di fuori della classica commedia alla Apatow.

mercoledì 9 maggio 2018

Il segreto dei suoi occhi - Juan José Campanella (2009)

(El secreto de sus ojos)

Visto in tv.

Un omicidio con stupro avvenuto nel 1974, le indagini condotte fuori dai canali ufficiali portano a un sospettato, che però riesce a sfuggire. 25 anni dopo lo stesso procuratore vuole scrivere un libro su quella vicenda, aprendo di nuovo ferite mai rimarginate, ma non solo quelle legate all'omicidio.

Il film originale, vincitore di un Oscar, che ha dato l'abbrivio all'omonimo film americano qualitativamente mediocre.
Decisamente questo, invece, è un ottimo film che si muove su più piani.

Come Thriller funziona alla perfezione. La trama si regge sul dettaglio della foto, un'idea inverosimile, ma usata nel modo giusto, funzionale per la trama senza affossare la credibilità complessiva. L'indagine, tutta svolta nel passato, lascia però dei buchi che si vanno ampliando nella linea temporale contemporanea. Il thriller si compone anche di una serie di colpi di scena (almeno due) che rendono realmente imprevedibile lo sviluppo della storia.

Ma oltre al thriller c'è una storia d'amore, nominata all'inizio, ma poi sempre mostrata in via indiretta e mai dichiarata con la coppia di protagonisti strepitosi nel mostrare sentimenti trattenuti e suggerendo quello che nella versione americana viene costantemente dichiarato. Questa seconda storia, che è il vero motore immobile dell'intera vicenda (e determina la lente deformante con cui ognuno dei personaggi guarda al passato), è il vero valore aggiunto di un thriller che altrimenti sarebbe piuttosto semplice.

Interessanti le due linee temporali, utili ai fini dei colpi di scena, ma anche e soprattutto a creando un distacco, una portata esistenziale alle due vicende davvero ragguardevole. Inoltre la parte romantica della vicenda, come già detto, risulta la lente originale attraverso cui questo passato viene filtrato aumentandone i significati.

Inoltre il film si compone di un dettaglio non indifferente; i personaggi di contorno. L'ecosistema all'interno degli uffici è ricreato in maniera incredibilmente verosimile, con una serie di personaggi di contorno che, con poche battute, riescono a dare il senso di una psicologia completa e della complessità dei rapporti sociali. Ovviamente su tutti regna il goffo collega alcolista dalle intuizioni geniali.

Ultimo dettaglio, che dettaglio non è, la regia. Per lo più buona, sembra lavorare molto sulla fotografia (calda, avvolgente, un tantino eccessiva) e abbastanza sulla costruzione delle scene, ma senza esagerare. Da lodare la famosissima scena dello stadio, un lungo piano sequenza aiutato tantissimo dal digitale che rappresenta più una prova muscolare delle capacità dell'industria cinematografica argentina che non un guizzo d'autore; tuttavia rimane una manovra gustosissima che è un piacere da guardare.


lunedì 7 maggio 2018

Ridi pagliaccio - Herbert Brenon (1928)

(Laugh, Clown, laugh)

Visto in Dvx.

In Italia una coppia di clown ha un'enorme successo di pubblico; uno die due è però consumato dall'amore che prova per la sua figlioccia (una trovatella che lui alleva fin da bambina); ovviamente dovrà contenderla con un giovane nobile di cui anche lei è innamorata.

Spiace vedere questo film adesso; metterlo a confronto con "He, who get slapped" è ingiusto, ma inevitabile avendolo visto da poco tempo; in entrambi c'è Lon Chaney nelle vesti di un clown trista. Il confronto fra i due film è impossibile perché con tutto il bene che gli si può volere, Brenon non è Sjöström... e confrontare un semplice melò con un più complesso film di rivalsa non sta né in cielo né in terra... Tuttavia durante la visione non ho potuto pensare a quanto fosse migliore l'altro e questo non può non influire sul giudizio.

In realtà, pur senza guizzi estetici alla svedese, Brenon porta a casa un'opera ben realizzata, cade più volte nel ripetitivo, ma riesce ogni volta a uscirne con un ritmo che viene mantenuto per tutto il film non arrivando mai alla noia. I sentimenti eccessivi sono ben sostenuti dal cast (il personaggio di Chaney, in mano a chiunque altro, sarebbe stato stucchevole e antiempatico). La storia è indubbiamente scontata e vista già molte volte e il finale è eccessivo anche per un melodramma, ma miracolosamente riesce a reggere il minimo per non risultare indigesto. Il film funziona, pur senza lodi sperticate, ne esce benissimo.

venerdì 4 maggio 2018

Ready player one - Steven Spielberg (2018)

(Id.)

Visto al cinema.

Spielberg torna ai film per ragazzi (età media aumentata rispetto ai classici Amblin anni '80) e, contemporaneamente, all'action; per farlo prende una storia moderna, ma citazionista al massimo, icnentrata sulla cultura pop anni '80... Spielberg che gioca la carta del post-modernismo citando sé stesso...

La confezione è data da un libro che parla di un futuro distopico dove un videogioco a realtà aumentata è il centro della vita di ognuno. Dove il creatore di quel gioco è morto e ha lasciato 3 chiavi nascoste nel mondo digitale e chi le dovesse scoprire diverrebbe il nuovo proprietario delle azioni dell'azienda. Una compagnia di videogiochi al cui vertici si trova un uomo senza scrupoli sarà l'antagonista di una gilda di regazzini, tutti outsiders, che lotteranno da soli per non lasciare che il mondo digitale finisca nelle mani sbagliate.

Assolutamente niente di nuovo per quanto concerna il plot, ma quello che è rinfrancante è il piglio senza prese di posizione preconcette del film. La vita virtuale è complessa tanto quella reale e le interazioni altrettanto articolate e i sentimenti sviluppati nel videogioco contano tanto quelli della vita fuori dal digitale. Il problema e la soluzione combaciano dando al mondo videoludico l'assenza di connotazione aprioristica. Un bel passo in avanti (rovinato da pochi secondi del finale, ma ci arriveremo).
Dall'altra parte c'è il solito rispetto che Spielberg da al suo pubblico e ai suoi personaggi (chiunque essi siano) e con il suo gruppo di eroi adolescenti ritorna nel proprio, ma aumentandone l'età si associa alla serie di film iniziati con le grandi saghe pre e post puberali dell'ultimo decennio (da "Harry Potter" ad "Hunger Games") dove lo scontro generazionale diventa esplicito e il nuovo non è il male.
Infine, Spielberg da sfogo alla sua capacità dio creare azione, anzi, azioni. Nei suoi ultimi film "action" ("Tintin", l'ultimo "Indiana Jones"), il regista ama mettere sequenze action tra le più disparate per tipologia e qua (seppure decisamente meno che nei precedenti) passa dagli inseguimenti in auto, allo scontro fra robbottoni, dalla battaglia epica, alle arti marziali (molto poco a dire il vero).
Il tutto in una sequenza di scene dal ritmo costante, in cui le pause di dialogo sono mantenuto attive dal ritmo complessivo in una cavalcata che non riesce mai ad annoiare.

Ah si, c'è pure un citazionismo costante di tutta la cultura pop (film, tanti, ma anche musica e videogiochi) anni '80 (solo la Disney ne è rimasta fuori per questioni legali) che è un piacevole gioco al riconoscimento su più livelli; ma questo punto di vista riesce a rimanere comunque secondario rispetto al resto del film, un'aggiunta gustosa, ma non determinante.

L'unico neo è un argomento "di nicchia" come i videogiochi trattato in un film il più possibile mainstream. Per amor di chiarezza Spielberg si dilunga in alcune spiegazioni eccessive sulle dinamiche videoludiche piuttosto banali, ma utili per allargare lo spettro di fruibilità del film. Spiegazioni che, salvo pochissimi momenti, riescono ad essere ben camuffate nella vicenda.
Totalmente non camuffata, invece, la svolta reazionaria a pochi secondi dalla fine, con un finalino che smentisce l'intero castello di dignità dato alla vita virtuale. Poca cosa, lo ammetto, ma messo in una posizione determinate e che disfa gran parte dell'encomiabile lavoro fatto fino a quel punto.

mercoledì 2 maggio 2018

Shin Godzilla - Hideaki Anno (2016)

(Shin Gojira)

Visto in DVD.

Reboot (ennesimo) del film del 1954, con Hideaki Anno alla regia che decide di gestire il plot come un affare personale e lo contamina con "Neon Genesis Evangelion" (anche se lui continua a dire di voler fare lavori differenti da quell'anime). Prende il solito plot di un mostrone gigante che attacca Tokyo e lo colora con colori pastello delicatissimi, gli dona uno sguardo esterno distaccato, popola il film di personaggi ricalcati dalle sue classiche figure femminili, dà al mostrono un'aura ancora più mitica (la metafisica è tirata in ballo spesso) e un comportamento ancora più simile a un evento naturale imprevedibile e lo fa gestire con forza e con grinta a un manipolo di eroi; ma soprattutto incastona il nostro all'interno della città, Tokyo non si limita più ad essere un modellino da distruggere, ma è la cornice entro cui si muove un dramma, è il limite dell'inquadratura. Su tutto una nuance miyazakiana (fra il maestro e Anno ci sono stati recenti contatti) che elimina la parte dell'antagonista, trasformando Godzilla in una vittima dell'uomo (inquinamento radioattivo), quindi in un evento pseudonaturale causato dalle stesse persone che provano a fermarlo (riportandolo vicino agli albori, mantenendone l'orrore, ma togliendone la colpa e la cattiveria).

Ma finora mi sono limitato a raccontare il meno. Perché il vero motivo per cui questo film su Godzilla rappresenta un unicum è il punto di vista; l'intera vicenda è vissuta dalle stanze del potere. La maggior parte del film mostra riunioni di ministri e tecnici che cercano di capire cosa sta succedendo, di prevedere ciò che accadrà e d'agire di conseguenza; la battaglia dell'esercito contro Godzilla (archetipo fin dal primo film) viene mostrata, ma prima, durante e dopo vengono mostrati gli step per arrivare fino a lì, i retroscena della sua conduzione e le conseguenze.
Ovviamente Anno può permetterselo perché mette in campo una tale serie di soluzioni di regia per rendere dinamici tutti questi incontri che risulta difficile portarne esempi (uno per tutti, il dialogo a più voci dove la persona che sta parlando viene inquadrata in secondo piano, mentre in primissimo c'è un dettaglio dell'interlocutore che ha parlato subito prima di lui) rendendo tutta la prima parte una tale festa per gli occhi da lasciare in secondo piano un mostrone particolarmente buffo (l'aspetto iniziale di Godzilla ha il suo motivo). Inoltre gestisce l'apparato del potere giapponese con il passo della commedia, sfottendone le dinamiche e l'aderenza alle procedure rendono la prima parte ancora più fluida e smorzando il patriottismo (altrimenti eccessivamente altisonante) della seconda parte.

Assolutamente affascinanti le ultime due versioni di Godzilla (questa e quella americana), ognuna a modo suo cerca una via nuova per parlare di una delle creature più abusate (e più metaforicamente pesanti) della storia del cinema.